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La costa italiana

Il cielo è coperto di nuvole. Il nuovo giorno, grigio e incerto, si fa largo attraverso la foschia che si è formata durante la notte e che stende fra noi e l’aurora la sua muraglia scura, in alcuni punti più densa, in altri quasi bianca.
Abbiamo paura che le nubi rendano scuro l’aere fino a sera e, con una stretta al cuore, leviamo gli occhi al cielo con angosciosa impazienza e con una sorta di muta preghiera.
Dalle strisce chiare che separano la massa nebbiosa, indoviniamo che l’astro che sta al di sopra illumina il cielo blu e la loro superficie candida come la neve. Speriamo. Attendiamo.
A poco a poco la foschia impallidisce, si assottiglia, sembra fondere. Si sente che il sole la brucia, la disperde, la schiaccia suo malgrado. L’immenso soffitto di nubi, troppo debole, cede, si piega, si fende e si apre sotto all’enorme carico della luce.

Al centro si illumina un punto, brilla una luce. Una breccia è fatta, un raggio scivola, lungo e obliquo e, scendendo, si allarga. Si direbbe che questa apertura nel cielo prenda fuoco. E’ una bocca che si apre, si allarga, si incendia e che, dalle labbra infuocate, sputa sui flutti una cascata di chiarore dorato.
Allora, la cappa scura si rompe in mille punti contemporaneamente, crolla e lascia passare delle frecce luminose, che si spandono come una pioggia sull’acqua, diffondendo sull’orizzonte la radiosa gaiezza del sole.
La notte ha rinfrescato l’aria. Un fremito di vento, appena un fremito, carezza il mare, solleticando e facendo fremere la sua pelle blu cangiante.      

Davanti a noi, su di un cono roccioso largo e alto, che sembra uscire dai flutti e si appoggia alla costa, si arrampica una città a punta, che gli uomini hanno dipinto di rosa, come l’aurora vittoriosa dipinge l’orizzonte. Alcune case blu creano delle incantevoli macchie di colore. La si direbbe la dimora scelta da una principessa delle Mille e una Notte.
E’ Porto Maurizio.
Dopo averlo visto in questo modo, non ci si dovrebbe avvicinare.
Invece, io sono sbarcato.
L’interno è in rovina. Le case sono sbriciolate e una parte della città, quella  verso la riva, è crollata, forse a causa del terremoto. Dall’alto in basso della roccia che sorregge le vecchie dimore gessose, aperte ai venti, si ammassano i muri crepati e incrinati. Il colore, che da lontano è così bello e in armonia col giorno nascente, su queste rovine, su questi tuguri non è che un orrenda imbiancatura scolorita, sbiadita dal sole e lavata dalla pioggia.  

Lungo le stradine, corridoi tortuosi, pieni di pietre e di polvere, ristagna un odore disgustoso, forte e penetrante, tanto che mi sento risollevato quando torno a bordo dello yacht.
E tuttavia questa città è capoluogo di provincia. La si direbbe un emblema di miseria, che si incontra mettendo piede sulla terra italiana. Sulla riva opposta del medesimo golfo c’è Oneglia, molto sporca e puzzolente, ma più viva e con un aspetto meno sinistramente povero.
Nel vano del portone del Collegio reale, che in questi giorni di vacanza è spalancato, c’è una donna anziana che rattoppa un materasso sordido.
Entriamo nel porto di Savona. Una selva di ciminiere di fabbriche e di fonderie, alimentate ogni giorno da quattro o cinque bastimenti a vapore inglesi carichi di carbone, vomita in cielo, attraverso bocche gigantesche, tortuose volute di fumo, che ricadono sulla città sotto forma di fuliggine, che la brezza trasporta di quartiere in quartiere, come una neve infernale.

Rematori e cabotieri, se volete conservare immacolate le vele bianche delle vostre piccole imbarcazioni, non entrate in questo porto!
Tuttavia, Savona è una bella città, molto italiana, con strade strette e allegre, piene di venditori in movimento, di frutti sistemati per terra, di pomodori scarlatti, di zucche rotonde, di uva nera, bianca, trasparente, che sembra aver assimilato la luce, di insalata verde, mondata in fretta e le cui foglie, gettate a profusione sul selciato, danno l’impressione di una città invasa dai giardini.
Ritornando a bordo dello yacht, sull’immenso tavolo di una bilancella napoletana, lungo quasi quanto il ponte, vedo qualcosa di strano, che fa venire in mente un festino di assassini.

Davanti a trenta marinai dalla faccia bruciata dal sole sono sparsi sessanta o cento quarti di anguria, d’un rosso sangue che si associa all’omicidio. Ricoprono l’intero battello di un colore che, a prima vista, dà l’impressione di una carneficina, di un massacro, di carne dilaniata.      
Si direbbe che questi uomini, i cui berretti rossi sono meno rossi della polpa del frutto, mangino allegramente e voracemente della carne insanguinata, come fanno le belve allo zoo. E’ una festa, alla quale hanno invitato anche gli equipaggi delle barche vicine. C’è una grande contentezza.  

La notte tornai in città.
C’era una musica che mi attirava e che mi fece attraversare da un capo all’altro l’abitato. Trovai un viale dove passavano lentamente gruppi di borghesi e di popolani che si recavano al concerto, tenuto regolarmente due o tre volte la settimana.
In questa terra di musicisti, le orchestre dei piccoli paesi sono al livello di quelle dei grandi teatri da noi. Pensavo alla musica che avevo ascoltato dalla barca la notte precedente e che ricordavo come una delle carezze più dolci che io abbia sentito.
Il viale terminava in una piazza che dava sulla spiaggia. Vicino ai flutti, un’orchestra suonava non so cosa, nell’ombra appena rischiarata dalle chiazze di luce gialla dei lampioni a gas.

Il vento era caduto e il rumore monotono e regolare delle onde sulla riva ritmava il suono degli strumenti.
Il firmamento era viola, d’un viola luminoso, indorato dalla polvere degli astri e faceva scendere su di noi una notte scura e leggera, che ricopriva tutti con le sue tenebre trasparenti. La folla era silenziosa, camminava a passi lenti attorno al cerchio dei musicisti, bisbigliando appena, o stava seduta sulle panchine lungo la passeggiata a mare, su grosse pietre abbandonate lungo il greto, su enormi travi sparse a terra vicino alla carcassa di legno dai fianchi scoperti di una grande nave in costruzione.
Non so se le donne di Savona sono graziose, ma so che la sera passeggiano quasi tutte a capo scoperto con un ventaglio in mano e questo tacito battito d’ali prigioniere, bianche, nere, macchiettate, vibranti come grosse farfalle notturne tenute fra le dita, è affascinante. Per ogni donna incontrata, in ogni gruppo seduto o a passeggio si ritrova questo svolazzamento imprigionato, il vago sforzo di volar via di queste foglie dondolanti, che sembrano rinfrescare l’aria della sera, mescolandovi qualcosa di civettuolo, di femminile, di dolce da respirare per il petto d’un uomo.

In mezzo a questo palpitare di ventagli e a queste chiome nude  mi misi scioccamente a sognare, nel ricordo dei racconti di fate, come facevo al collegio quando, prima di addormentarmi nel gelido dormitorio, pensavo al romanzo divorato di nascosto sotto al coperchio del banco. A volte, in fondo al mio vecchio cuore, avvelenato dall’incredulità, si sveglia per qualche istante il mio piccolo, ingenuo, cuore di ragazzo.  
Genova vista dal mare è una delle cose più belle che si possano vedere al mondo.
La città si innalza in fondo al golfo, come se uscisse dai flutti, ai piedi della montagna. Lungo le due coste che  si arrotondano intorno a lei per  racchiuderla, proteggerla e accarezzarla, vi sono quindici cittadine, serve e vassalle, che riflettono nell’acqua le case dai colori chiari. A sinistra della loro grande patrona ci sono Cogoleto, Arenzano Voltri, Pra, Pegli, Sestri Ponente, San Pier d’Arena; a destra, Sturla, Quarto, Quinto, Nervi, Bogliasco, Sori, Recco, Camogli, ultima macchia bianca sulla punta di Portofino, che chiude il golfo a sud est.

Sopra al suo immenso porto, Genova si stende sui primi mammelloni delle Alpi, che si innalzano dietro, curvi e allungati in una gigantesca muraglia. Sul molo, la torre alta e quadrata del faro, detto ‘la Lanterna’, sembra una candela smisurata.
Entriamo nell’avamporto, enorme bacino mirabilmente ridossato dove circola, cercando clientela, una flotta di rimorchiatori. Dopo aver aggirato la gettata/ molo est, entriamo nel porto, pieno di navi, le belle navi del Mezzogiorno e dell’Oriente dai colori incantevoli, tartane, bilancelle, maone, fornite di vele e alberati e pitturate con grande fantasia, portanti madonne blu e oro, santi ritti sulla prua, animali bizzarri considerati santi protettori.

Tutta questa flotta con vergini e talismani contro la sventura è allineata lungo le banchine, con i nasi puntuti e ineguali rivolti verso il centro dei bacini. Poi appaiono, raggruppati per compagnie, robuste navi a vapore in ferro, strette e alte, dalle forme colossali e sottili. Al centro di questi pellegrini del mare, vi sono dei navigli bianchi, dei grandi tre alberi o brigantini vestiti, come gli Arabi, di abiti appariscenti sul quale scivola il sole.
Se non vi è niente di più bello dell’ingresso nel porto, niente è più sporco dell’ingresso in città. Il viale lungo il molo è una palude di immondizia e le strade strette, originali, chiuse come dei corridoi fra due linee tortuose di case smisuratamente alte danno il voltastomaco per le loro emanazioni pestilenziali.   

A Genova si prova quello che si prova a Firenze e ancora di più a Venezia, l’impressione di una città molto aristocratica caduta in potere del volgo.
Qui nacque il pensiero dei rudi signori che si battevano o commerciavano sui mari e che poi, col denaro delle loro conquiste o del commercio, costruivano gli straordinari palazzi di marmo, che ancora oggi fiancheggiano le strade principali.
Quando si entra in queste magnifiche residenze signorili, che i discendenti dei grandi cittadini della più fiera delle repubbliche hanno dipinto di colori chiassosi, quando se ne paragona lo stile, i cortili, i giardini, i portici, le gallerie, le superbe decorazioni  con l’opulenta barbarie delle belle dimore della Parigi moderna, appartenenti a milionari capaci di incassare soldi ma non di concepire e realizzare una cosa nuova e bella, si comprende che nella nostra società democratizzata, composta da ricchi finanzieri senza gusto e da parvenu privi di tradizioni la distinzione data dall’intelligenza, il senso della bellezza delle forme, quello della perfezione nelle proporzioni e nelle linee sono scomparsi.

C’è un’osservazione curiosa da fare sulla banalità delle case moderne. Se entrate nei vecchi palazzi di Genova, vedrete una successione di cortili d’onore con gallerie, colonnati e scale di marmo incredibilmente belle. Ogni cosa è  disegnata in modo diverso, è concepita da artisti veri per uomini dall’occhio esperto, difficili da contentare.
Se entrate nei vecchi manieri di Francia, troverete lo stesso sforzo teso a rinnovare lo stile e la decorazione.
Ma se entrate in una delle lussuose magioni della Parigi di oggi, vi ritroverete ad ammirare dei curiosi oggetti antichi accuratamente catalogati, etichettati, messi in vetrina secondo la loro quotazione commerciale stabilita da esperti, ma non vi capiterà di restare sorpresi davanti a qualche originale invenzione in una delle parti della casa.   

All’architetto si chiede di costruire una bella casa del costo di svariati milioni. Egli incassa il cinque o dieci per cento sulle spese, secondo la quantità di lavoro artistico che il suo progetto deve contenere.
Il tappezziere, a condizioni diverse, provvede alla decorazione. Questi due ideatori industriali conoscono bene l’incompetenza congenita dei loro clienti, per questo non si azzarderebbero mai a proporre qualcosa di inedito, limitandosi invece a riproporre una versione diversa di quello che hanno già fatto per altri.
Dopo aver visitato le antiche e nobili dimore di Genova e ammirato alcuni quadri fra i quali i tre capolavori di Van Dyck, non rimane da vedere che il Camposanto, il più bizzarro, sorprendente, macabro e comico museo di sculture funebri che vi sia al mondo. Lungo l’immenso quadrilatero corre una galleria, come un chiostro gigantesco aperto su un cortile che accoglie le tombe dei poveri ricoperte da lapidi bianche come neve. Percorrendola, si passa davanti a una processione di borghesi di marmo che piangono i loro morti.

Che mistero! Queste statue testimoniano una grande capacità, un vero talento da parte degli artigiani che le hanno realizzate. La natura dei vestiti, delle camicie, dei pantaloni rivela una lavorazione di fattura stupefacente. Ho visto un abito di amoerro a cui i tagli netti della stoffa davano un aspetto di totale verosimiglianza. Non vi è niente di più irresistibilmente grottesco, mostruosamente ordinario, indegnamente comune di queste persone che piangono gli amati congiunti.
Di chi è la colpa? Dello scultore, che nei lineamenti dei suoi modelli ha visto soltanto la volgarità dei borghesi moderni e non ha saputo trovarvi quel riflesso superiore d’umanità che i pittori fiamminghi hanno colto così bene nei tipi più laidi e plebei della loro razza? Dei borghesi, ai quali il basso livello di civilizzazione democratica ha eroso e cancellato ogni carattere distintivo e ha fatto perdere i segni di originalità di cui ogni classe sociale è sempre stata dotata?

I Genovesi sembrano molto fieri di questo sorprendente museo che disorienta e rende difficile il giudizio.      
Dal porto di Genova alla punta di Portofino è un rosario di città, uno sgranarsi di case costruire sulla spiaggia, fra il blu del mare e il verde della montagna. La brezza di sud-est ci costringe a bordeggiare. E’ debole, ma con soffi improvvisi e bruschi, che fanno inclinare lo yacht e lo spingono di colpo in avanti, come se fosse trascinato da un cavallo. A prua, due bordi di schiuma ribollono come la bava di un animale marino. Poi il vento cessa e la barca riprende dolcemente il cammino, che un po’ la avvicina, un po’ la allontana dalla costa italiana, a seconda del bordeggio. Verso le due il comandante, intento a scrutare l’orizzonte con il binocolo, per vedere il tipo di velatura e le mure adottate dalle altre imbarcazioni e dedurne la forza e la direzione dei venti nella zona dei golfi in cui si origina un vento a volte tempestoso, a volte leggero e dove i cambiamenti del tempo sono rapidi come le crisi di nervi di una donna, mi dice bruscamente:
“Signore, bisogna ammainare la freccia. I due brigantini-goletta davanti a noi hanno appena serrato le vele in alto. C’è vento forte laggiù.”

L’ordine venne impartito e la lunga vela gonfia discese dalla sommità dell’albero e scivolò molle, penzolante, ancora palpitante, come un uccello appena ucciso, lungo il trinchetto, quando cominciava a sentire la raffica annunciata e prossima ad arrivare.
Non c’erano onde, solo piccoli flutti che increspavano qua e là la superficie del mare. Ma, all’improvviso, in lontananza davanti a noi, vidi l’acqua tutta bianca, come se vi avessero steso sopra un lenzuolo. La linea cotonosa si avvicinava a noi velocemente e quando fu a qualche centinaio di metri, la velatura dello yacht ricevette una brusca scossa dal vento che sembrava galoppare sulla superficie del mare, rabbioso e furioso, spiumando il fianco della barca come avrebbe fatto una mano con il ventre di un cigno. E quella peluria strappata dall’acqua volteggiava e si sparpagliava, sotto all’attacco invisibile e sibilante della burrasca. Noi eravamo coricati su un fianco e lo  scafo era sommerso dalle onde agitate che saltavano sul ponte. Come presi da una vertigine di velocità partimmo precipitosamente, con le sartie tese e l’alberatura cigolante.

E’ davvero un’ebbrezza esaltante e inimmaginabile tenere fra le mani la lunga sbarra di ferro che guida attraverso le raffiche questa bestia imbizzarrita e inerte, docile e senza vita, fatta di tela e di legno, con tutti i muscoli dal collo al garretto tesi nello sforzo.
Il furore del vento non durò che tre quarti d’ora. Poi, di colpo, l’umore del cielo parve rabbonirsi e il Mediterraneo riprese il suo bel colore azzurro. L’atmosfera divenne improvvisamente dolce. La collera si era placata, era cessata l’asprezza e il riso gioioso del sole si era diffuso nello spazio.
Ci avvicinammo al capo, alla cui estremità, in un punto apparentemente inaccessibile ai piedi della costa scoscesa, scorsi tre case e una chiesa.

Chi poteva mai abitare là, buon Dio? Cosa facevano quelle persone? Come comunicavano con gli altri se non con uno dei due canotti tirati in secca sulla spiaggia stretta?
Abbiamo doppiato la punta. La cosa continua fino a Portovenere, all’entrata del golfo della Spezia. Tutta questa parte di costa è incomparabilmente attraente.
In una baia larga e profonda che si apre davanti a noi, si intravede S. Margherita, poi Rapallo, Chiavari. Più lontano, Sestri Levante. Lo yacht  aveva virato di bordo e scivolava a quattrocento metri dalle rocce. A un tratto, all’estremità del capo che abbiamo appena aggirato, scopriamo una  gola in cui entra il mare, una gola nascosta, quasi introvabile, piena d’alberi, di abeti, di ulivi e di castagni. Intorno a questa conca d’acqua tranquilla si distende a mezzaluna un paese piccolissimo, Portofino.

Attraversiamo lentamente  il passaggio che collega  questo incantevole porto naturale al mare aperto ed entriamo nel cerchio di case attorniate da un fresco bosco d’un verde intenso, riflessi l’uno e l’altro nello specchio d’acqua tranquillo dove sonnecchiano alcune barche da pesca.
Una di esse viene verso di noi. E’ guidata da un vecchio, che ci saluta, ci dà il benvenuto, ci indica l’ancoraggio dopo aver afferrato una cima d’ormeggio per attraccare e tornare poi ad offrirci i suoi servizi e i suoi consigli per qualunque cosa vogliamo chiedergli, ci fa gli onori di questo villaggio di pescatori. E’ il comandante del porto.
Credo di non aver mai provato un’impressione di beatitudine simile a quella provata all’ingresso in questa cala verde né un sentimento di riposo, di appagamento e di sosta, nell’agitazione vana in cui si dibatte la nostra esistenza, più forte e confortevole di quello che mi ha preso quando il rumore dell’ancora che cadeva disse a tutto il mio essere che noi eravamo ancorati là.

Sto remando da otto giorni. Lo yacht è fermo al centro della minuscola rada tranquilla ed io vado in giro col mio canotto lungo le coste e nelle grotte, dove il mare rumoreggia al fondo di buchi invisibili, attorno agli isolotti dentellati e bizzarri che l’acqua sommerge di abbracci senza fine ad ognuno dei  sollevamenti, fra gli scogli a fior d’acqua che hanno criniere di erbe marine. Mi piace veder ondeggiare sotto di me, nei flutti quasi impercettibili, le lunghe piante rosse o verdi dove si mescolano, si nascondono, guizzano le immense famiglie appena schiuse dei pesciolini, Li si direbbe degli aghi d’argento che vivono e nuotano.
Quando alzo gli occhi sulle rocce della riva, scorgo gruppi di ragazzini nudi e abbronzati, stupiti da questo vagabondo. Sono anch’essi innumerevoli, un’altra progenie del mare, una tribù di giovani tritoni nati ieri che giocano e si arrampicano sulla riva di granito per bere un po’ d’aria dello spazio. Ne troviamo nascosti nei crepacci, ne scorgiamo in piedi sulle punte, con le loro forme fragili e graziose da statuette di bronzo stagliate contro il cielo italiano. Altri, seduti con le gambe penzoloni sul bordo di grosse pietre, si riposano fra un tuffo e l’altro.

Abbiamo lasciato Portofino per un soggiorno a Santa Margherita. Non è affatto un porto, ma il fondo di un golfo appena protetto da un molo.
La terra è talmente attraente da far quasi dimenticare il mare. La città è riparata dall’angolo cavo di due montagne, separate da una valle che va verso Genova. Sulle due coste, innumerevoli piccole strade fra muri di pietra, alti circa un metro, si incrociano, salgono, scendono, vanno e vengono, strette, pietrose, a gradinate e separano innumerevoli campi o, meglio, giardini di ulivi e fichi inghirlandati dai pampini rossi. Attraverso le foglie bruciate delle vigne abbarbicate agli alberi si scorge il mare a perdita d’occhio, i promontori rossi, i villaggi bianchi, i boschi di abete sui pendii e le grandi cime di granito grigio. Qua e là si incontrano delle case, davanti alle quali le donne fanno il merletto.

In tutto il paese, d’altra parte, non vi è nessuna porta dove non siano sedute due o tre lavoratrici che si applicano all’opera che hanno ereditato e che maneggiano con le dita leggere i numerosi fili bianchi o neri a cui sono appesi dei piccoli pezzi di legno giallo, che danzano e saltellano in continuazione. Esse sono spesso graziose, alte e fiere d’aspetto, ma trasandate, senza cura di sé e senza civetteria. Molte conservano ancora tracce di sangue saraceno.
Un giorno, all’angolo di strada di una frazione, una di loro mi passò vicino e mi lasciò l’emozione della bellezza più sorprendente che io abbia forse mai incontrato.

Sotto a una massa pesante di capelli scuri mossi attorno alla fronte, in un disordine sdegnoso e frettoloso, aveva un viso ovale e bruno da Orientale, da figlia dei Mori, dei quali conservava l’andatura ancestrale; ma il sole dei Fiorentini le aveva dato una pelle dal chiarore dorato. Gli occhi – che occhi!- allungati, d’un nero impenetrabile, sembravano lasciar passare una carezza senza sguardo fra le ciglia talmente folte e grandi che non ne ho mai viste di simili. E la carne attorno ai suoi occhi aveva ombreggiature così strane, che se non la si fosse vista in piena luce si sarebbe sospettato un artificio da mondana.
Quando si incontrano simili creature, vestite di stracci, è un peccato che non le si possa catturare e portare via, per agghindarle, per dire loro quanto sono belle e ammirarle. Che importa se esse, primitive e ammalianti come tutti gli idoli, fatte soltanto per essere amate da cuori deliranti e cantate con parole degne della loro bellezza, non comprendono il mistero della nostra esaltazione.

Tuttavia, se avessi potuto scegliere fra la più bella delle creature viventi e la donna dipinta da Tiziano, che avrei rivisto otto giorni più tardi nella sala della tribuna a Firenze, avrei scelto la donna dipinta dal Tiziano.
Firenze, che mi chiama come la città dove un tempo avrei più amato vivere, che ha per i miei occhi e il mio cuore un fascino inesprimibile, mi attira in modo quasi sensuale, con questa immagine di donna coricata, sogno prodigioso di attrazione carnale. Quando penso a questa città, così piena di meraviglie che, a fine giornata, ci lascia stremati per le cose viste, come un cacciatore lo è per aver camminato, nel ricordo mi appare all’improvviso, luminosa, questa grande tela lunga dove riposa una donna nuda, bionda, tranquilla, dal gesto impudico.

Dopo questa evocazione della potenza seduttrice del corpo umano, appaiono, dolci e pudiche, le vergini: in primo luogo, quelle di Raffaello, la Vergine del cardellino, la Vergine del granduca, la Vergine della seggiola; poi quelle ideali e mistiche dei Primitivi, dai tratti innocenti e i capelli biondo chiaro; infine, quelle piene di salute dei materialisti.
Quando si passeggia in questa città unica e in tutta la Toscana, che gli uomini del Rinascimento hanno inondato di capolavori, ci si chiede con stupore cosa deve essere stata l’anima esaltata, feconda, inebriata di bellezza e follemente creatrice, di quelle generazioni pervase da un delirio artistico. Nelle chiese delle piccole città, dove si vanno a vedere cose che non sono offerte ai comuni viaggiatori, si scoprono sui muri e in fondo ai cori dei dipinti inestimabili di grandi maestri pieni di modestia,  che non vendevano le loro tele all’America ancora da scoprire, ma lavoravano in povertà per l’arte, come devoti operai che non avevano speranze di far fortuna.

Questo popolo senza cedimenti non ha lasciato nulla di poco pregio e lo stesso riflesso di bellezza immortale, nato dal pennello dei pittori e dallo scalpello degli scultori, si è irradiato nelle linee di pietra delle facciate dei monumenti. Le chiese e le cappelle sono piene di sculture di Luca della Robbia, di Donatello, di Michelangelo e le loro porte di bronzo sono di Bonannus o del Giambologna.     
Quando si arriva in piazza della Signoria, in faccia alla Loggia dei Lanzi, sotto allo stesso portico si vedono il Ratto delle Sabine, Ercole che atterra  il centauro Nesso del Giambologna, Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini e Giuditta e Oloferne di Donatello. Fino a qualche anno fa, la galleria ospitava anche il David di Michelangelo.
Ma più siamo conquistati e inebriati dalla suggestione del nostro viaggio in questa foresta di opere d’arte, più ci sentiamo pervasi da un bizzarro malessere, che si mescola alla gioia di guardare e che proviene dal contrasto fra la folla moderna, così banale e ignara di ciò che guarda e i luoghi in cui abita. Si sente che le teste dai cappelli rotondi color cioccolato e gli occhi indifferenti di questa gente dai desideri volgari non sono più vivificati dall’animo sensibile, fiero e raffinato del vecchio popolo che ricoprì questa terra di capolavori.

Tornando verso la costa, mi sono fermato a Pisa per rivedere la piazza del Duomo.
Chi potrà mai spiegare l’attrattiva triste e penetrante di certe città quasi morte?
Pisa è una di queste. Appena entrati in città, si è afferrati da un languore malinconico, un desiderio coevo e impotente di partire e di restare, di fuggire e di fermarsi a gustare indefinitamente la dolcezza deprimente della sua aria, del suo cielo, delle sue case, delle sue strade, dove abita la più tranquilla, la più tetra e la più silenziosa delle popolazioni.
La vita sembra averla abbandonata. Il mare si è allontanato, il suo porto, un tempo sovrano, si è interrato e fra la nuova riva e la città si è formata una pianura sulla quale è cresciuta una foresta.

L’Arno la attraversa e le sue acque gialle fluiscono, dolcemente ondulate, fra due alte muraglie che sostengono le due passeggiate principali costeggiate da case, giallastre anch’esse, da alberghi e da qualche modesto palazzo.    
Sola, la piccola cappella di Santa Maria della Spina, in stile francese del tredicesimo secolo, costruita su un viale tagliato di netto dalla sua linea sinuosa, innalza al di sopra dell’acqua il suo elaborato profilo di reliquiario. A vederla così, sul bordo del fiume, sembra il grazioso lavatoio gotico della buona Vergine, dove vengono gli angeli di notte a lavare gli orpelli sgualciti delle madonne.
Percorrendo la via Santa Maria si va verso la piazza del Duomo.

Per chi è colpito dalla bellezza e dalla potenza mistica dei monumenti, di sicuro non esiste nulla di più sorprendente e di più avvincente di questa vasta piazza erbosa, contornata da alti bastioni che racchiudono, in diverse collocazioni, il Duomo, il Camposanto, il Battistero e la Torre pendente.
Quando si arriva sul bordo di questo campo deserto e selvaggio, circondato da vecchie muraglie, e ci si trova di colpo davanti a questi quattro grandi esseri di marmo, con un profilo, un colore, una grazia armoniosa e superba così imprevisti, si rimane sbigottiti e travolti dall’ammirazione, come davanti al più raro e grandioso spettacolo che l’arte umana possa offrire allo sguardo.

Ma è il Duomo che ben presto cattura e serba tutta l’attenzione per la sua inesprimibile armonia, la forza irresistibile delle sue proporzioni e la magnificenza della sua facciata.
E’ una basilica dell’undicesimo secolo, di stile toscano, in marmo bianco con incrostazioni nere e di colore. Davanti alla perfezione della sua architettura romanico-italiana, non si è dominati dallo stesso stupore che si prova davanti all’elevazione ardita, all’eleganza delle torri e delle guglie, al merletto in pietra che le avvolge, alla gigantesca sproporzione fra l’altezza e la base delle cattedrali gotiche.
Si è però sorpresi e avvinti dalle impeccabili proporzioni, dalla magia delle linee e delle forme, dalla facciata con decorazioni in basso e con pilastri collegati da arcate in alto, dalle quattro gallerie di colonnine sempre più piccole di piano in piano. La seduzione di questo monumento rimane in noi come quella di un poema mirabile, di un’emozione ritrovata.

Non serve a nulla descrivere queste cose, bisogna vederle nel loro cielo, quel cielo classico d’un blu speciale, con nubi spinte lentamente verso l’orizzonte in masse argentate, che la natura sembra aver copiato dai pittori toscani, vecchi artisti realisti impregnati di atmosfera italiana. Chi li ha imitati sotto il cielo francese è soltanto un falso operaio d’arte.
Dietro la cattedrale, il campanile eternamente pendente, come se stesse per cadere, disturba e deride il senso d’equilibrio che ognuno di noi ha dentro di sé. Davanti alla porta del camposanto c’è il Battistero, con la sua alta cupola conica arrotondata.
In questo antico cimitero, i cui affreschi sono classificati come dipinti d’importanza capitale si dischiude un chiostro delizioso, d’una grazia triste e penetrante, al centro del quale due vecchi tigli nascondono sotto alla loro verde chioma una tale quantità di legno morto che, quando soffia il vento, fanno uno strano rumore, come mucchi di ossa che cozzino fra di loro.

I giorni passano. L’estate volge al termine. Voglio ancora visitare un paese lontano, dove altri uomini hanno lasciato ricordi più modesti, ma altrettanto eterni. Essi sono i soli che abbiano saputo arricchire la propria patria di un'Esposizione Universale che torneremo a vedere nel corso dei secoli.  


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